La pandemia da COVID-19 ha fatto emergere incertezze e criticità dei sistemi sanitari a livello mondiale ma, nella sua drammaticità, può rappresentare anche un’occasione per guardare al futuro progettando cambiamenti importanti in termini di investimenti e organizzazione. A un anno dall’inizio della pandemia abbiamo affrontato con il dott. Claudio Micheletto, Direttore Unità Operativa Complessa di Pneumologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona, alcuni temi che saranno oggetto di confronto fra esperti anche durante la prossima edizione di Innovabiomed.

 

Dott. Micheletto, iniziamo parlando del tema dell’approvvigionamento di dispositivi medici. Cosa dovremmo fare per non farci più cogliere impreparati in futuro?

Per il futuro sarà necessario fare un ragionamento serio sui settori strategici. Lo Stato dovrà porre più attenzione a questo aspetto, finanziando la ricerca e garantendo al nostro sistema sanitario un margine di autonomia e di sicurezza che ci possa consentire di affrontare eventuali emergenze, anche in considerazione del fatto che in Italia ci sono distretti come quello di Mirandola in cui troviamo delle eccellenze che vanno preservate. Proprio nel distretto modenese, ad esempio, ci sono le aziende che producono i caschi per ventilazione non invasiva che a marzo 2020 hanno lavorato 24 ore al giorno. Pensiamo poi anche alle problematiche relative al reperimento dei vaccini: una volta le multinazionali avevano una fabbrica per ogni paese ma oggi non è più così. Fino a qualche anno fa Glaxo, ad esempio, aveva una fabbrica a Verona che adesso non c’è più. Se a gennaio Pfizer ci avesse chiuso i rubinetti saremmo stati in estrema difficoltà.

 

Dal suo punto di vista dove si sono registrate le criticità maggiori nella gestione dell’emergenza sanitaria?
Probabilmente più sul territorio che non negli ospedali. Negli ospedali dove sono stati realizzati reparti covid non abbiamo avuto grandi mancanze. In aprile però, per fare un esempio, ho ricoverato 6 medici di base anche con gravissime malattie ed uno è deceduto nel corso di questa ondata. E’ evidente che la mancanza di dispositivi di protezione è stata uno dei grandi problemi, pensiamo anche ai focolai nelle case di riposo. Poi ovviamente nell’ondata primaverile c’è stata la corsa per ingrandire i reparti e per reperire tutte le apparecchiature necessarie, come i ventilatori. L’Azienda Zero in Veneto si è rivolta dalle aziende del modenese e le forniture sono arrivate, anche se con un minimo di ritardo. Io credo che per quanto riguarda i ventilatori dovremmo essere autonomi e che, in caso di emergenza, dovremmo poterci rivolgere ad un’azienda che, anche in 24 ore, sia in grado di garantire quanto serve. E’ necessario attivare una filiera nazionale che attraverso i poli di biotecnologie dei vari territori – che in Italia sono di altissimo livello – sia in grado di rifornirci di ventilatori, mascherine e così via.

 

E dal punto di vista organizzativo come andrebbe ripensata la medicina di base?
Diciamo che questa non è una malattia facile da gestire, anche se adesso stiamo sviluppando qualche conoscenza in più relativamente al trattamento. A marzo però non c’era nessuna linea guida e nessun farmaco efficace, per cui immaginare che la medicina territoriale possa gestire una situazione del genere è molto difficile. Il primo punto però resta la protezione, fondamentale per contenere il contagio. Poi c’è il tema del tracciamento: adesso stiamo facendo dei tamponi ma in primavera non ce n’erano a sufficienza. L’organizzazione territoriale è fondamentale per l’aspetto diagnostico, il tracciamento e l’isolamento. Le chiusure si sono rese necessarie proprio per cercare di tenere minimamente contenuto il numero dei contagi perché quando questo scresce a dismisura salta anche il tracciamento. Anche una regione che in primavera si era distinta come il Veneto, nella seconda fase è andata in difficolta. Abbiamo fatto tanti tamponi ma, per dare un dato, in alcuni giorni la provincia di Treviso faceva più positivi di Roma. Poi sulle terapie c’è stato un grande dibattito perchè a tutt’oggi se noi guardiamo le linee guida del ministero, non ci sono particolari indicazioni; siamo fermi alla terapia antiaggregante e al cortisone, sempre un po’ dibattuto sul quando farlo e quando no.

 

Non c’è solo il covid. Quali sono stati i problemi nella gestione delle altre patologie?
Se io guardo la mia realtà, noi ad un certo punto ci siamo trovati con oltre 280 ricoverati e questo significa 280 posti che non vengono aggiunti ma vengono tolti ad altre attività e reparti quindi non si riesce a gestire una normale attività sanitaria. Inoltre non è possibile formare i medici in due mesi. C’è stato quindi un pesantissimo rallentamento delle altre attività, dovuto anche al fatto che i pazienti che entravano in ospedale per altre motivazioni ma che risultavano positivi al tampone, venivano operati e poi trasferiti nel reparto covid dove ovviamente la gestione, ad esempio, di una frattura del femore non veniva gestita come in un reparto di ortopedia. L’attenzione che devi dedicare al covid implica necessariamente un ritardo su tutto il resto per cui la mortalità complessiva in Italia nei picchi di epidemia aumenta in modo drammatico, anche del 60-70%.

 

Anticorpi monoclonali: le aspettative sono eccessive o ritiene che ci siano spiragli importanti?
E’ uno spiraglio importante però alcuni la vedono come alternativa al vaccino invece sono due cose ben diverse. Il vaccino è prevenzione, gli anticorpi monoclonali hanno dato buone evidenze nel paziente ospedalizzato. Sono il primo approccio specifico per questa malattia, ma è un trattamento dedicato a un paziente che ha già disturbi e che eventualmente potrà guarire prima. Se la prossima estate e il prossimo autunno avremo meno casi potremo curarli meglio, anche con gli anticorpi monoclonali. C’è anche un tentativo per usarli a scopo preventivo ma gli studi sono ancora in corso e in ogni caso questo tipo di farmaci sarebbero destinati a pazienti che non possono fare la vaccinazione per vari motivi. È per noi una grande speranza, però, ripeto, si tratta di una terapia per una patologia che si è già manifestata e comunque non garantisce un esito positivo.

 

L’obiettivo di Innovabiomed è quello di favorire l’innovazione biomedica mettendo in relazione il mondo della ricerca e della pratica clinica con quello della produzione dei dispositivi medici. L’esperienza legata al Covid-19 ci può insegnare qualcosa in questo senso?
La pandemia ci ha fatto capire che tutti i discorsi fatti negli ultimi anni sulla parola telemedicina hanno portato a poco. Riferendomi al mio ambito: perchè un paziente asmatico non grave deve per forza venire in ospedale rischiando di ammalarsi? Potrebbe stare tranquillamente a casa e questo non significherebbe abbandonare il paziente ma poterlo controllare da remoto. Servirebbero strumenti basici, anche un cellulare, e si potrebbero controllare la saturazione e la frequenza cardiaca, oltre a faro lo scarico di tute le glicemie. Non è possibile che la Samsung inserisca un sensore dietro al telefono per fare la saturimetria e che in ambito sanitario nessuno ci abbia mai pensato. Dovremo cambiare il rapporto ospedale-territorio e protegettarlo come può essere pensato nel 2021 perchè abbiamo dei mezzi potentissimi che in sanità non vengono ancora utilizzati. Si tratta di sfruttare la tecnologia per reimpostare un rapporto ospedale-territorio che consenta a tanti pazienti di non muoversi da casa perché, oltre al Covid, c’è sempre il tema dell’infezione ospedaliera. Tutto questo comporta investimenti, tecnologia e formazione.